Ci stiamo abituando alle guerre!

ROMA – In altri articoli di questa testata si è parlato più volte di digitalizzazione delle relazioni che progressivamente porta a un cambiamento significativo nel modo in cui le persone avvertono, sperimentano e vivono le relazioni interpersonali, di anni più che mai contrassegnati dalla dipendenza da internet in tutte le sue forme e dalla dipendenza tecnologica da apparecchi come lo smartphone e dal conseguente diradarsi dei rapporti sociali.

Ma c’è qualcos’altro, a parere di chi scrive, che il massiccio ricorso alle moderne tecnologie – che riflette spesso i frenetici e caotici ritmi della nostra quotidianità, anche se si fa obiettivamente fatica a capire se ci sia un rapporto di causa ed effetto tra l’uno e gli altri e viceversa – sta comportando: la diversa percezione delle guerre e dei pericoli che alla stessa si uniscono, ma pure, forse, il diverso modo di sentire le angosce e le inquietudini che ne discendono.

Un tempo la guerra era lo spettro di ogni nazione, il termine veniva naturalmente associato a morti, distruzioni, anni di carestia e di difficoltosa ripresa, il solo timore che la stessa potesse anche solo lambirti, sfiorarti, terrorizzava i popoli.

Oggi, con le moderne tecnologie ci stiamo abituando a vedere, dall’Ucraina al Medio Oriente, scenari e azioni di guerra quasi in diretta, immagini di obiettivi centrati con precisione scientifica che finiscono per spettacolarizzare e magnificare le azioni stesse, e le guardiamo senza forse nemmeno interrogarci sulle conseguenze di quelle azioni in termini di città rase al suolo, di bambini e adulti che muoiono, di persone operate alla meno peggio senza anestesia, quasi fossero una nota a margine. La parola guerra è oramai una parola che fa parte del nostro vocabolario quotidiano, tanto da non spaventarci più, da lasciarci per certi aspetti indifferenti e distaccati, e con il passare delle settimane e dei mesi le tragedie causate dalle guerre in atto sbiadiscono nella memoria e nella coscienza collettiva.

Eppure, le notizie di questi ultimi giorni sono tutt’altro che rassicuranti, da Mosca che avverte che i missili balistici ipersonici Oreshnik sono in grado di “colpire obiettivi in tutta Europa” potendo eludere qualsiasi sistema di difesa aerea, al monito di Putin che, dopo l’autorizzazione degli Usa e della Gran Bretagna a Kiev di attaccare in profondità il territorio russo con i missili da loro forniti, non esita a definire il conflitto come un “conflitto globale”, riservandosi il diritto di colpire anche le infrastrutture militari di Washington e Londra, dalle migliaia di truppe nordcoreane assoldate da Putin che si stanno radunando in Russia pronte a entrare in guerra, al fianco dei soldati russi, contro l’Ucraina, a Trump che rispetto al programma nucleare di Pyongyang, capitale della Corea del Nord del dittatore Kim Jong-un, avverte che se la Corea del Nord continuerà con l’escalation della minaccia nucleare la risposta americana sarà fuoco e furia, come il mondo non ha mai visto, per finire, a proposito di scene di guerra sempre più sanguinose e sempre più tragicamente attuali e normali, con lo scontro in Medio Oriente tra Israele e Hezbollah – organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista libanese, il cui obiettivo principale, come proclama la sua carta costitutiva, è la distruzione dello Stato di Israele – che ha riservato, si fa per dire, qualcosa anche per noi, attraverso i missili di Hezbollah sulla base italiana a Shama, in Libano, con 4 nostri militari, impegnati nella missione Unifil, la forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite, rimasti feriti, sia pure lievemente.

Insomma, un campionario di situazioni, peraltro incompleto, che, al di là dei moniti di alcuni degli attori principali anche a scopi strategici per negoziare le migliori condizioni e/o per (ri)trovare posizioni d’avanguardia, fa ritenere a diversi esperti come seria e reale la minaccia di un conflitto globale e come possibili passi di avvicinamento al grande, e a quel punto irrimediabile, conflitto, le guerre che vediamo e viviamo oggi.

Per ritornare all’assuefazione alla guerra, alla presa di coscienza quasi consuetudinaria della guerra grazie all’adattamento passivo prodotto dalla rappresentazione martellante e in tempo reale che di essa ci somministrano i moderni strumenti/mezzi tecnologici, l’aspetto che più fa riflettere è che questo abituarsi alla guerra e alla sua retorica non ci fa più temere, forse, nemmeno l’aggiungervi l’aggettivo “nucleare”, confidando (con certe teste calde?!) che ragionevolezza, buon senso e spirito di sopravvivenza prevalgano in tutti.

Una cosa è certa sul tema: sta a ciascuno di noi rifiutare di abituarsi alla guerra, provare a non rifugiarsi dietro la maschera, a proposito del ricordato adattamento passivo, della persona impotente e non responsabile o che pensa, tolti casi circoscritti e limitati, che il resto sia, a maggior ragione se complesso e complicato, sempre affari di altri. Anche perché il passaggio da spettatore passivo a soggetto direttamente coinvolto in scenari di guerra è probabilmente molto più corto di quello che si possa pensare.