Delitto di Garlasco, ennesimo caso di indagini che non convincono!
ROMA – L’articolo 27 della nostra Costituzione contiene i principi costituzionali essenziali dell’ordinamento penale italiano; tra questi, la presunzione di non colpevolezza fino a quando non sia stata emessa una sentenza di condanna definitiva, che accerti la responsabilità penale (secondo comma).
Non vi è dubbio, che a tale principio sono strettamente associati i seguenti articoli del codice di procedura penale:
- l’articolo 533, nella partizione in cui dispone che «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio (…)» (co. 1);
- l’articolo 530, laddove stabilisce che il giudice pronuncia la sentenza di assoluzione «(…) quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova (…) che l’imputato (…) ha commesso (…)» il fatto (co. 2);
- l’articolo 527, secondo cui se «(…) nella votazione sull’entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più di due opinioni (…) qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all’imputato» (co. 3).
Sulla interpretazione delle riportate disposizioni normative, giurisprudenza e dottrina hanno originato le più sottili e acute letture, ma sicuramente esse ci dicono, complessivamente considerate, come chiarito dalla Suprema Corte, che la pronuncia di condanna dell’imputato non può che fondarsi sulla assoluta certezza processuale della sua responsabilità, certezza che deve essere acquisita sulla base di elementi/dati probatori che lascino fuori solamente delle ricostruzioni/ipotesi alternative costituenti eventualità remote, obiettivamente non plausibili, la cui effettiva realizzazione risulti in concreto priva del benché minimo riscontro in sede processuale, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.
Certo, concetti questi più facili da affermare che non da applicare in concreto, che potremmo semplificare con il noto brocardo latino «in dùbio pro rèo», «nel dubbio, a favore dell’imputato», che esprime il principio giuridico per cui tra due interessi, quello alla tutela dell’innocente e quello alla condanna del reo, prevale il primo: come si dice grossolanamente, dovendo scegliere tra il rischio di tenere in galera un innocente e quello di lasciare libero un colpevole è preferibile correre quest’ultimo.
Ma veniamo, più specificatamente, al tema di cui all’annotato titolo, strettamente connesso alle riflessioni prima sviluppate.
La vicenda delle nuove indagini sul delitto di Garlasco, per il quale come è noto esiste un colpevole condannato con sentenza passata in giudicato per il reato di omicidio, sta facendo riemergere, in tutta evidenza, la questione degli errori macroscopici, delle mancanze, delle superficialità nella conduzione di indagini di polizia dirette a costruire, nei singoli casi, un solido quadro probatorio necessario ai fini dell’individuazione certa (per l’appunto “al di là di ogni ragionevole dubbio”) degli autori del delitto e delle responsabilità loro imputabili.
A fronte di tali situazioni, la cosa che più fa specie nell’opinione pubblica sta nel fatto che gli investigatori attualmente dispongono di mezzi/strumenti di indagine progressivamente sempre più efficaci (si pensi alle intercettazioni ambientali/telefoniche, all’analisi del DNA, all’utilizzo dei sistemi di IA, etc.), della possibilità di avvalersi di nuove figure professionali per tracciare, sviluppare i profili psicologici dei possibili criminali e delle vittime del reato, oltre alla constatazione che è sempre più diffusa, almeno negli intenti, la consapevolezza di dover delimitare e tutelare la scena del crimine, allo scopo di evitare, preservandola, l’inquinamento o la contaminazione dei reperti.
Ma, ciò nonostante, le descritte situazioni purtroppo caratterizzano molti dei casi di cronaca, anche i più recenti, compresi quelli che sono stati risolti con condanne definitive e che pure lasciano il dubbio che in carcere possano essere finiti degli innocenti.
Occorrerebbero ampi spazi espositivi per passare anche in compendiosa rassegna tali eventi criminosi e casi giudiziari, che peraltro spesso sono quelli che maggiormente attraggono l’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto nell’era dei processi mediatici ossia di compulsiva rappresentazione degli stessi da parte dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare di quelli televisivi.
Mezzi di comunicazione che finiscono poi, normalmente, per dividere l’opinione pubblica in vere e proprie fazioni alimentate dai social, quelle degli “innocentisti” e dei “colpevolisti”, divisione che spessissimo non avviene sulla base, in particolare, della conoscenza degli elementi processuali a carico o a favore dell’imputato, ma per impressioni di simpatia o antipatia, per la percezione che del medesimo si ricava, influendo negativamente nelle vite personali e familiari delle persone coinvolte nel processo mediatico e forse, chissà, anche sull’evoluzione del caso giudiziario.
Come escludere, infatti, che i media possano trasmettere comportamenti e punti di vista agli individui che sostengono l’accusa e che, peggio ancora, esercitano un ruolo giudicante in sede giudiziaria?
Come escludere che i media siano capaci di attivare, negli stessi individui, dinamiche di imitazione dei modelli mediali?
Come escludere, pertanto, che i media possano, per il tramite di chi ne subisce l’influenza, determinare persino l’esito di processi nelle aule dei tribunali, dopo che si sono svolti nei salotti televisivi e nelle pagine scandalistiche/effettistiche?
Ma tutto questo determina anche che, quando finiscono in manette innocenti vittime di errori giudiziari, lo Stato deve sostenerne i relativi oneri.
L’associazione Errorigiudiziari.com, (https://www.errorigiudiziari.com/errori-giudiziari-quanti-sono/), che da oltre 25 anni approfondisce il fenomeno degli errori giudiziari e delle loro conseguenze in Italia, ha di recente scattato una fotografia dello stesso, dalla quale emerge che i casi (incompleti) di errori giudiziari «(…) dal 1991 al 31 dicembre 2024 (…)» sarebbero stati «(…) 31.949: in media, quasi 940 l’anno (…)», fattore questo che avrebbe determinato una spesa complessiva (incompleta) per lo Stato, «(…) tra indennizzi e risarcimenti veri e propri (…)», pari a «(…) 987 milioni 675 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 49 mila euro l’anno (…)».