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25 aprile, ha ancora senso festeggiare la “Liberazione”? O sarebbe più opportuno e attuale celebrare “La giornata per il recupero dei valori”?

ROMA – Il 25 aprile è il giorno della celebrazione, in Italia, della liberazione, la data in cui, nel 1945, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò la sedizione generale avverso l’occupazione nazifascista e segnò l’inizio della ritirata, dalle città di Torino e Milano, dei soldati nazisti e fascisti della Repubblica di Salò.

La data simbolo del 25 aprile, come “Anniversario della Liberazione” del territorio italiano dall’occupazione nazifascista, fu stabilita con decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), a mente del quale «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.» (art. 1, primo co.), salvo poi trovare la sua definitiva consacrazione normativa con l’articolo 2 della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive).

Eppure, questa data da sempre determina tensioni e polemiche caratterizzate da una forte matrice politico-ideologica, costituisce un momento di forte polarizzazione della politica, che si ritiene allontani dalla società civile e porti la “gente comune” a esserne decisamente stufa.

La sceneggiatura ci dice come tale festa sia divenuta progressivamente, nel corso degli anni, una sorta di prerogativa, di appannaggio esclusivo della “sinistra” che probabilmente, rispetto ad altre forze politiche che pure giocarono un ruolo non meno importante durante la “Resistenza”, è riuscita ad assicurarsene l’appartenenza, finendo per generare riluttanze e distacco nell’area politica liberale-conservatrice o, comunque, per originare negli appartenenti alla stessa una percezione/sensazione di estraneità o disagio.

In data odierna, ma anche nei giorni scorsi, non poteva mancare la messa in onda di tale copione, stavolta alimentato anche dai 5 giorni di lutto/cordoglio nazionale per la morte di Papa Francesco e la posizione del governo nazionale, espressa dal Ministro Musumeci, secondo cui «Tutte le cerimonie sono consentite naturalmente, tenuto conto del contesto e quindi con la sobrietà che la circostanza impone a ciascuno». Questo invito alla “sobrietà”, con riferimento al 25 aprile, ha finito con lo scatenare una vera e propria bagarre, è stato interpretato da diversi esponenti dell’opposizione politica come un modo per fornire, ad arte, ad alcuni comuni guidati dal “centro-destra”, che avrebbero già nutrito riserve sulla celebrazione dell’evento, una scusante di tipo istituzionale per ridimensionarlo o cancellarlo; insomma, un tentativo ingannevole di depotenziare una ricorrenza ufficiale che, storicamente, è divisiva per la destra di governo.

In sostanza, un siparietto di polemiche che, a distanza di 80 anni dalla data che si commemora, dà l’idea di quanto la politica sia per certi aspetti facilmente “distraibile” da temi che la “gente comune” probabilmente non avverte più, soprattutto in una fase in cui è immersa nei problemi veri, quelli reali, che il Paese è chiamato ad affrontare tempestivamente e rispetto ai quali si chiede, alla politica tutta, di sforzarsi a trovare risposte e soluzioni.

Chi scrive si domanda, in termini dubitativi e in modo del tutto scevro da valutazioni e simpatie politiche, se abbia ancora un senso continuare a celebrare una festa da sempre divisiva, di rottura, che vede peraltro i veri e assoluti protagonisti della “Resistenza” e della “Liberazione” ossia i partigiani del 25 aprile del 1945 – ossia di 80 anni fa e che, per essere tali, dovevano avere per forza di cose a quella data un’età adeguata – che fatalmente e praticamente non esistono più, sebbene siano “rappresentati” da associazioni al cui interno, per definizione, “partigiani” non possono esserci, salvo che si ammetta che gli iscritti alle stesse siano destinatari di una sorta di “lascito ereditario”, in forza di rapporti parentali o amicali risalenti nel tempo.

Verrebbe da dire associazioni partigiane, ma senza partigiani, che evidentemente se continuano a esistere sono espressioni di una forma di “Resistenza” che non è più quella narrata (del 1943-‘45) e si vuole celebrare, appartenente oramai esclusivamente alla storia, ma che trova altrove i paradigmi (politici?!) a cui informarsi.

È chiaro, infatti, si ritiene almeno per la “gente comune”, che il fascismo non c’è più e che i partigiani da radunare non ci sono più.

Ma allora, per ritornare al dubbio prima accennato, ha ancora un senso continuare a festeggiare il 25 aprile se, pur essendo nel nostro Paese una data simbolo della lotta per la libertà e la democrazia, un giorno per rinnovare l’impegno rispetto ai valori della “Resistenza” e per non dimenticare il passato e riflettere sul presente e futuro, da sempre crea contrapposizioni di natura ideologica, costituisce purtroppo uno strumento di contrasto e strumentalizzazione che potremmo definire di tipo politico-antropologico, utilizza la “categoria del fascismo”, fortunatamente superata, per delegittimare avversari politici che non appartengano a una certa area politica?

In fondo quei valori democratici che si vogliono ricordare (la libertà, l’uguaglianza, etc.) e che il fascismo ha violato, dal 1° gennaio 1948 sono scolpiti nella nostra Carta costituzionale repubblicana e appartengono oramai indissolubilmente alla coscienza del popolo italiano.

Non sarebbe forse meglio, alla luce di ciò, dedicare tale giorno al ricordo, a tutti noi, che nel nostro Paese assistiamo a un deficit educativo ai valori, a un’emorragia manifesta di valori – intendendosi con essi i princìpi etici e morali che valutiamo come fondamentali, sovrastanti nella nostra vita e che utilizziamo anche come criteri per giudicare o valutare comportamenti e azioni – che coinvolge strati sempre più diffusi della società?

Non sarebbe forse meglio ricordare, in tale giorno, quali strumenti sono stati attivati per educare alla cittadinanza e quindi a essere cittadini responsabili, attivi, consapevoli dell’importanza della partecipazione, nel rispetto di regole, diritti e doveri, alla vita civica e sociale della comunità, sul presupposto che una società priva o carente di valori è una società malata, destinata al declino, a forme di precarietà affettiva e relazionale e di inaridimento culturale e umano?