Champions League 2025, la prova più convincente della decisività di un allenatore nei successi di una squadra di calcio
ROMA – Il tema di quanto un allenatore di calcio possa incidere sui successi della propria squadra è stato già affrontato con riferimento al recente scudetto conquistato dal Napoli guidato da Antonio Conte, in particolare evidenziando quanto questi sia stato decisivo, numeri e fatti alla mano, nel portare tale squadra dal decimo posto della stagione precedente al primo della stagione appena conclusasi.
Sabato scorso, nella finale di Champions League in cui il Paris Saint Germain (PSG) allenato da Luis Enrique con un perentorio 5 a 0 (il punteggio più largo con cui una squadra abbia mai vinto la più prestigiosa e qualificata competizione calcistica europea per club n.d.r.) ha letteralmente annichilito l’Inter di Simone Inzaghi, si è indubbiamente assistito alla prova più convincente di quanto un allenatore di calcio possa essere decisivo nei successi della propria squadra.
Perché la prova più convincente?
Beh, anche per il ricordato valore della coppa vinta, ma soprattutto perché a vincerla è stata “la squadra” allenata da Luis Enrique e non “le stelle” del calcio mondiale che, dal 2011, si sono succedute nella squadra parigina.
Da tale anno, il PSG è di proprietà della Qatar Sports Investments ossia di una società gestita dal governo qatariota che investe in e gestisce asset sportivi in tutto il mondo, che si stima abbia speso circa 2,3 miliardi di euro in 14 anni, tra acquisti di cartellini, ingaggi, commissioni e altro, per allestire di anno in anno una formazione zeppa di stelle del calcio internazionale con l’obiettivo primario di vincere la Champions League.
Una somma astronomica, quella spesa, che ha determinato ad esempio che il PSG potesse avere in rosa, contestualmente, calciatori come Messi, Neymar e Mbappé, quest’ultimi due acquistati alle cifre record di 222 e 180 milioni di euro rispettivamente dal Barcellona nel 2017 e dal Monaco nel 2018. Senza contare gli altri straordinari campioni che hanno militato dal 2011 nel PSG, da Ibrahimovic a Beckham, da Di Maria a Cavani, da Icardi a Thiago Silva, solo per citarne alcuni di qualche anno fa.
Ma allora perché il PSG, nonostante l’incredibilmente competitivo e ampio parco giocatori a disposizione fino a sabato scorso non era riuscito a vincere la Champions League – ossia, come si diceva, il grande obiettivo della proprietà qatariota anche in ragione delle operazioni di marketing dirette a catalizzare interessi e capitali vari sul proprio Paese finanche attraverso una politica sportiva di livello internazionale – arrivando solo nel 2020, vale a dire nell’anno condizionato in ogni senso dal covid, a centrare la finale poi persa contro il Bayern Monaco?
La risposta sta nel fatto, a parere di chi scrive, che finalmente per il PSG nel 2023 è arrivato un allenatore capace di far comprendere alla proprietà del club che il calcio è un gioco diverso dal “fantacalcio”, in cui per vincere è sufficiente organizzare e gestire la squadra virtuale formata dai calciatori più forti fra quelli che giocano lo stesso torneo.
Chiarire alla proprietà che il calcio è un “giuoco di squadra”, fatto di equilibri tattici, di funzionalità dei calciatori al modulo che si vuole attuare, di predisposizione mentale e fisica dei singoli giocatori a giocare per la squadra e non per sé stessi rispettando le mansioni assegnate, di movimenti continui e corsa fino all’ultima energia, di spirito di sacrificio che porta ognuno dei protagonisti in campo a soccorrere un compagno di squadra che si trova in difficoltà, è servito a fare quel salto di qualità che si è concluso magistralmente sabato scorso con la demolizione all’Allianz Arena di un Inter mai capace di entrare in partita.
E a Parigi, sabato sera, tutti, ma proprio tutti, hanno capito che schierare i migliori giocatori per ruolo, se non vi è un giuoco di squadra, può servire solo a vincere le competizioni in patria, in cui il livello della concorrenza evidentemente non è elevatissimo.
Ed è per questo che da Luis Enrique in avanti al PSG sono rimasti solo giocatori funzionali al suo giuoco, tra questi sicuramente Marquinhos, Hakimi, Donnarumma, Mendes, Vitinha e Fabian Ruiz, e sono arrivati, oltre a Dembélé, trasformato in un falso centravanti straordinariamente prolifico e in grado di dettare magistralmente i tempi e le soluzioni dell’attacco e del pressing della squadra, soltanto giovani di talento e altrettanto funzionali, che hanno la fame di affermarsi e vincere e la consapevolezza che con un allenatore così, capace di esaltarne le caratteristiche tecniche e di farli crescere mentalmente e tatticamente, sono destinati a raggiungere livelli altissimi: Doué, Pacho, Kvaratskhelia, Neves, Ramos e Barcola, senza dimenticare Mayulu cresciuto in casa.
Insomma, con Louis Enrique in panchina il PSG, pur continuando a spendere molto, ha smesso di correre dietro ai grandi nomi puntando su giocatori, giovani e meno giovani, tutti rigorosamente capaci di “stare in campo”, come se fossero un insieme di strumentisti che compongono un’orchestra e che collaborano a un’esecuzione musicale.
E non a caso, subito dopo il trionfo in Champions League, Nasser Al-Khelaifi, il presidente del PSG, in una delle interviste rilasciate ha affermato orgogliosamente “Abbiamo un allenatore incredibile. Per me, è il miglior allenatore del mondo” e ha aggiunto “Abbiamo stelle fantastiche, ma le stelle giocano per la squadra, non la squadra per le stelle, ed è questa la differenza oggi. Abbiamo giocatori giovani e affamati che vogliono morire per la maglia, vogliono dare tutto per il club, per la squadra e per i tifosi”.
Avrà in tutto questo un merito assolutamente decisivo, rispetto al passato, Luis Enrique?
La domanda retorica trova la risposta nel riportato titolo.