Presidente Trump, agli americani lasci almeno il piacere della pasta italiana

ROMA – Sulla pasta italiana in arrivo super-dazio Usa del 107%”, è il titolo di un “lancio” di ANSA dei giorni addietro.

È noto come gli Stati Uniti non si distinguano nel mondo per l’unicità e la pluralità dei propri “saperi e sapori culinari” che invece caratterizzano in modo superlativo il nostro Paese, così come è altrettanto risaputo che i cittadini statunitensi sappiano apprezzare, eccome, i tipici prodotti agroalimentari italiani e, tra questi, la pasta.

Sarà forse per questo, allora, che nella guerra commerciale dichiarata dall’Amministrazione Trump al mondo intero con l’arma dei dazi, si registra uno specifico attacco al “Made in Italy”.

Oggetto dell’“imboscata” commerciale è la pasta italiana ossia un prodotto di punta e fortemente identitario del “Made in Italy”, una vera e propria eccellenza del nostro sistema agroalimentare che, grazie al “saper fare” dei pastai nostrani, coniuga al meglio tradizione, qualità e innovazione.

E non è un caso, infatti, che il nostro Paese sia leader mondiale nella produzione ed esportazione di pasta (quasi la metà del mercato globale), con oltre il 60% della sua produzione destinata a quasi 200 Paesi esteri, al punto che tale export nel 2024 ha generato un valore economico complessivo superiore a 4 miliardi di euro. Tra i principali mercati esteri di destinazione della pasta italiana figura quello degli Stati Uniti, secondo solo a quello della Germania, con un giro d’affari che sempre nel 2024 ha raggiunto un valore di poco inferiore a 700 milioni di euro.

Ritornando alla questione del super-dazio, il Dipartimento del Commercio americano, a seguito di indagini effettuate nel periodo compreso dal 1° luglio 2023 al 30 giugno 2024, accusa le aziende italiane del settore di dumping (nella fattispecie, esportazione della pasta italiana a un prezzo più basso rispetto a quello praticato sul mercato interno o su altri mercati, allo scopo di impadronirsi del mercato statunitense così danneggiando la concorrenza), con la conseguenza che, se non interverranno “ripensamenti”, da gennaio 2026 al dazio del 15% già applicato per effetto dell’accordo USA-UE sui dazi, se ne aggiungerà un altro del 91,74% (c.d. margine di dumping), portando perciò il dazio complessivo sulla pasta alla quota di quasi il 107%.

Non potevano pertanto mancare le reazioni delle associazioni di settore, che non solo temono il contraccolpo economico che tale azione antidumping determinerebbe sull’export in un mercato ritenuto strategico numeri alla mano, ma contestano pure il metodo seguito dal Dipartimento del Commercio americano.

Ritengono inaccettabile, infatti, che in mancanza di elementi oggettivi accertati il super-dazio sia esteso automaticamente e indistintamente a tutte le paste prodotte da aziende italiane, a fronte delle riferite indagini che invece sono state svolte, individualmente, solo su due aziende del settore (La Molisana e il Pastificio Garofalo). In tal senso, si tratta di una misura che – sebbene avviata prima dell’insediamento di Trump a presidente ed estranea al menzionato accordo USA-UE sui dazi, trattandosi di un dazio antidumping all’importazione con lo scopo di riportare il prezzo finale di vendita a un livello considerato più equo – risulta essere generalizzata e non trasparente, per di più anche basata sul fatto che i due marchi italiani sarebbero stati poco collaborativi (?!), non avrebbero fornito le necessarie informazioni (?!), accuse queste respinte al mittente dalle interessate.

Tale circostanza comproverebbe che siamo in presenza di una decisione di tipo “politico” e non tecnico degli USA, ed è per questo che le aziende del settore, mentre mettono a punto azioni legali, invocano un segnale forte da parte delle istituzioni italiane ed europee.

A nostro modo di vedere la politica sui dazi imposta da Washington per favorire il mercato interno non solo, in un’economia globale come quella attuale, presenterà alla lunga il conto agli Stati Uniti, ma appare obiettivamente ancor di più insensata nel caso della pasta, considerato che parliamo di un bene alimentare la cui produzione interna è limitatissima negli USA e sostanzialmente privo di alternative sul mercato domestico statunitense. Sotto quest’ultimo profilo, dunque, parrebbe difficile ipotizzare un vantaggio per l’economia interna scaturente dal fatto che l’aumento vertiginoso del costo della pasta dovuto al super-dazio possa orientare le abitudini alimentari su surrogati della stessa (?!) prodotti internamente.

Un vantaggio per l’economia statunitense potrebbe invece aversi se le aziende italiane decidessero di delocalizzare la produzione di pasta negli USA, come già capita in particolare per una di esse.

Svantaggi prevedibili potrebbero invece esserci per i consumatori italiani in termini di “effetto rimbalzo”, “effetto domino” da super-dazio, con l’aumento dei prezzi interni della pasta legato al calo dell’export negli USA o, ancora, per la produzione italiana di grano duro di qualità e per l’intera filiera produttiva interna, che vede pastai, agricoltori stoccatori, industria sementiera e mugnai agire in perfetta sinergia.

Ritornando al mercato USA è evidente che l’eventuale aumento di costo della pasta conseguente al super-dazio lo pagherebbero i cittadini americani, soprattutto quelli appartenenti alle fasce più deboli, che non potranno più concedersi un primo piatto di assoluta qualità o dovranno, magari, accontentarsi di imitazioni scadenti, come quelle tipiche della pratica commerciale denominata “Italian sounding”, che utilizza nomi, immagini o grafiche che richiamano l’Italia e la sua reputazione di qualità e tradizione, per vendere prodotti non di origine italiana, così ingannando i consumatori.

Viene allora naturale chiedere al Presidente Trump: ma ai cittadini americani vuole togliere anche il piacere sensoriale e l’equilibrio nutrizionale assicurato loro dalla pasta italiana?!