“Sì, pronto!” ……

ROMA – Quante volte, squillando il nostro telefono, abbiamo risposto “Sì, pronto!” – parole con cui usualmente, con tono esclamativo, diamo inizio a una conversazione telefonica – e dall’altra parte abbiamo trovato il silenzio in risposta?

Si tratta delle cosiddette “chiamate mute”, che derivano quasi sempre dall’uso di diffusi sistemi automatizzati di call center (struttura preposta alla gestione delle chiamate di un’azienda attraverso operatori o risponditori automatici) e di telemarketing (metodo di marketing diretto, in cui operatori contattano telefonicamente gli utenti per promuovere beni o servizi, raccogliere dati o effettuare sondaggi).

Come chiarisce il Garante per la protezione dei dati personali (di seguito, breviter, “Garante privacy”) in un’apposita FAQ, le telefonate mute sono la conseguenza di « sistemi automatizzati che generano più chiamate rispetto al numero degli operatori disponibili a gestirle, i quali, quindi, non possono parlare con l’utente (e la telefonata resta appunto “muta”) finché non si liberano dalle chiamate precedenti che il sistema ha instradato automaticamente».

Tali sistemi servono a ottimizzare i tempi per le aziende interessate, in quanto i singoli operatori telefonici hanno sempre a disposizione, al termine di ciascuna chiamata effettuata, un’ulteriore chiamata, già avviata, da prendere in carico e gestire, evitando così momenti di inattività e tempi morti.

Dalle numerosissime segnalazioni arrivate al Garante privacy emerge che le telefonate mute possono originare nelle persone contattate, in considerazione anche di una ricezione reiterata e protratta nel tempo, oltre che una intuibile seccatura e un senso di frustrazione che deriva dal dover subire passivamente e impotenti la situazione, anche uno stato di apprensione/ansietà e allarme in merito alla loro provenienza. Infatti, con i rischi e i pericoli che la quotidianità ci riserva non è fuori luogo associare, mettere in diretta relazione una chiamata muta con una illecita forma di controllo, magari finalizzata alla commissione di eventuali reati (furti, aggressioni, etc.) da parte di malviventi, con tentativi di molestie, di stalking o di altre eventuali altrui condotte, potenzialmente lesive di chi la riceve. Ma una chiamata muta può determinare anche il timore che possa essere capitato qualcosa di grave a un proprio familiare che in quel momento non è in casa oppure che non è convivente o che è malato.

Si tratta di un tema che, se affrontato sotto il profilo del trattamento dei dati personali, come fatto in ragione delle proprie competenze dal Garante privacy, richiederebbe spazi di narrazione non conciliabili con quelli consentiti a questo articolo, essendo delicato sotto molteplici profili.

In sintesi, e semplificando notevolmente, si può dire che una qualsiasi chiamata telefonica connessa a pratiche promozionali/commerciali implica il trattamento di dati personali – sicuramente, tra questi, il numero di telefono e il nominativo, ma spesso anche l’indirizzo – della persona fisica (identificata) che la riceve, la quale assume lo status di “interessato”. Tale situazione determina, nella fattispecie, che l’azienda che gestisce il call center e tratta dunque (nella qualità, a seconda dei casi, di titolare o di responsabile del trattamento) i dati dell’interessato (come si diceva della persona fisica che riceve la chiamata) può farlo solo se ha acquisito il previo consenso espresso e informato da parte di quest’ultimo alla ricezione dell’iniziativa promozionale/commerciale ovvero, nel caso in cui i dati personali dell’interessato siano tratti ad es. da un elenco telefonico, solo previa verifica, ai fini dell’effettiva utilizzabilità dei dati stessi, della mancata iscrizione del medesimo al “Registro pubblico delle opposizioni”. Inoltre, l’operatore telefonico che lavora per conto dell’azienda legittimata a trattare i dati dell’interessato deve essere, a sua volta, da questa previamente autorizzato e istruito al trattamento stesso.

Posto quindi che devono necessariamente sussistere le descritte condizioni affinché il trattamento dei dati personali in occasione di tali chiamate telefoniche sia lecito, quali sono le questioni che, più specificatamente, si presentano in occasione delle chiamate mute?

Le chiarisce il Garante privacy con il provvedimento 20 febbraio 2014, n. 83 (Provvedimento generale a carattere prescrittivo sulle c.d. ‘chiamate mute’), con cui ha adottato « accorgimenti e correttivi tesi alla riconduzione del fenomeno …» delle chiamate mute « entro fisiologici limiti di tollerabilità …» con riferimento ai requisiti di liceità e correttezza delle modalità attraverso le quali, in tale caso particolare, viene effettuato il trattamento dei dati personali.

Il Garante privacy sottolinea, in sostanza, come le chiamate mute quando si verificano, risolvendosi in meri tentativi di contatto andati a vuoto, non perseguono le finalità determinate, esplicite e legittime su cui si basano le chiamate telefoniche a scopo promozionale/commerciale, con la conseguenza che il trattamento dei dati che ne scaturisce, essendo per di più particolarmente invasivo, non corrisponde pienamente ai principi di liceità, correttezza e trasparenza nei confronti dell’interessato.

In ragione di ciò, alla luce delle articolate valutazioni svolte nella premessa di detto provvedimento, il Garante privacy, al fine di mitigare gli effetti degenerativi del fenomeno delle telefonate silenti e rendere residuale la possibilità di riceverle, ha stabilito con il provvedimento stesso che:

  • non possono effettuarsi più di 3 telefonate mute ogni 100 andate “a buon fine”;
  • la chiamata muta deve essere interrotta (“abbattuta”) dal sistema automatizzato trascorsi 3 secondi dalla risposta dell’utente;
  • a seguito di una chiamata muta deve essere preclusa la possibilità di richiamare quella stessa utenza per almeno 5 giorni;
  • l’eventuale successivo riuso di quel numero deve avvenire in modo da assicurare la presenza di un operatore;
  • l’utente che riceve la chiamata muta sia messo nella condizione di percepire – attraverso la generazione, da parte del sistema, di una sorta di rumore ambientale, il c.d. “comfort noise”, che potrà consistere in voci di sottofondo, squilli di telefono, brusio – che la stessa provenga da un call center, così escludendo ogni ipotesi malevola sulle intenzioni dello sconosciuto chiamante;
  • i call center devono conservare, per un periodo non inferiore a due anni, i report statistici delle percentuali di telefonate mute effettuate, in modo tale da consentire eventuali controlli sull’effettivo rispetto delle regole stabilite dal Garante privacy, la cui violazione comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.