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Calcio, dal barcone al pallone: il razzismo a convenienza

Calcio, dal barcone al pallone: il razzismo a convenienza

Lo straniero, secondo una diffusa mentalità, è da denigrare solo quando è avversario

di Matteo Spinelli

ROMA - La coerenza, ce ne stiamo accorgendo, non è cosa di questi tempi. Ciò che oggi sosteniamo strenuamente, domani condanniamo in maniera forte e convinta; senza che questa sia minimamente cambiata, oltretutto. Non è tanto un discorso di onestà intellettuale (figuriamoci…), quanto più che altro una questione di frangente e contesto.

Pensiamo ad esempio ad una delle questioni più cupe e tristi dei nostri giorni: il razzismo. Giornalmente, purtroppo, assistiamo ad atti di vera e propria discriminazione – che sia comportamentale, fisica, di concetto o interpretata sotto qualsiasi forma – nei confronti di chi ha un altro colore della pelle o un’origine che non sia la nostra. Braccianti sfruttati, operai sottopagati o extracomunitari insultati così, per il puro gusto (magari un giorno ci spiegheranno quale) di farlo.

Ma non in tutti i campi è così. Il contesto, appunto. L’apoteosi di questo paradosso la possiamo riconoscere in maniera nitida nel mondo dello sport e, ahimè, del calcio. Cori razzisti, gli ormai tristemente noti “buu” e tante altre manifestazioni che abbiamo imparato a conoscere, cozzano inevitabilmente con il comportamento che tutti noi assumiamo sugli spalti. Un tifoso dell’Inter, ad esempio, non si è mai posto il problema di coerenza esultando al gol di Samuel Eto’o, insultando poi un avversario per il colore della pelle. E capita così in ogni stadio d’Italia e del mondo: lo straniero è da denigrare solo quando è avversario.

E il paradosso è ancor più grande quando lontano dallo stadio speriamo nel mancato attracco di un barcone sulle nostre coste e poi sugli spalti incitiamo ragazzi che magari, prima di conquistare la gloria sul rettangolo verde, hanno conosciuto proprio lo strazio di quei viaggi così duri. Ed il calcio, oggi più che mai, è pieno di storie a lieto fine, in tal senso.

L’ultima in ordine temporale è quella di Musa Jurawa, l’attaccante gambiano classe 2001 del Bologna, capace di andare in gol a San Siro contro l’Inter. Arrivato in Italia nel 2016 con un barcone nelle coste della Sicilia, è stato poi affidato ad una famiglia a Ruoti, in provincia di Potenza, dove ha iniziato la sua carriera calcistica nelle file delle giovanili della Virtus Avigliano. Il gol a San Siro lo ha portato nei cuori dei suoi tifosi, magari anche di quelli che, davanti alle notizie di uno sbarco di migranti, sperano di vederli respinti con la forza.

Non dovrà essere certo un calciatore o una rete gonfiata da un gol a restituirci una coscienza civile, ma se questo (per una volta) potesse aiutare, ben venga. “Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo” diceva un grande tifoso ed appassionato come Pier Paolo Pasolini. Restituiamo alla sacralità ciò che merita: il rispetto. Che sia un viatico per farci accendere il cervello un po’ più spesso e non solo quando ci fa comodo.

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