Tabelle Eurostat 2023: Italia quasi “maglia nera” in Europa per aspettativa della vita lavorativa

ROMA – Dalle tabelle Eurostat sul 2023, l’aspettativa della vita lavorativa colloca il nostro Paese, con la media di 32,9 anni, in fondo alla classifica Ue (36,9 anni, in media, attesi), lasciando indietro solo la Romania (con 32,2 anni, in media, attesi), a fronte dei picchi raggiunti da Paesi Bassi (43,7 anni, in media, attesi) e Svezia (43,1, in media, attesi). Questa misura ossia la previsione della durata media della vita lavorativa, costituisce un indicatore per monitorare, a livello europeo, l’andamento della strategia occupazionale e sta a indicare il numero di anni che una persona, da un’età di partenza di 15 anni, si presume sarà forza lavoro (e quindi sarà nel mercato del lavoro in qualità di occupata o disoccupata).

Per dare un’idea della discordanza espressa dai numeri riportati, uno svedese che inizia a lavorare a 15 anni, termina a circa 58 anni, mentre un coetaneo italiano termina quasi a 48 anni. Il dato italiano nel 2023 riflette indubbiamente la modesta aspettativa di vita lavorativa per le donne, pari a 28,3 anni attesi in media, a fronte dei 34,7 anni attesi in media in UE. Non trascurabile, tuttavia, in tal senso, la constatazione che in Italia proprio il dato della durata media della vita lavorativa prevista per le donne sia cresciuta, dal 2000 al 2023, di oltre 7 anni (7,2 anni), e più velocemente di quanto sia cresciuta, nello stesso periodo, la media UE (6 anni); certo, se il dato per le donne nel nostro Paese viene rapportato a quello di altri Stati europei come la Svezia (41,9 anni) e i Paesi Bassi ed Estonia (41,5 anni), qualche interrogativo si leva spontaneo. Più in linea, invece, nel 2023, i dati per gli uomini, per i quali la durata media prevista della vita lavorativa in Italia è di 37,2 anni, con un gap rispetto alla media UE (39 anni previsti) decisamente meno vistoso di quello delle donne.

Certo sono dati che per essere interpretati necessiterebbe di ulteriori dati, ma viene istintivo pensare che alcuni fattori, in Italia, anche sistemici, pesino sicuramente nel determinarli. Ci si riferisce, in particolare: ai NEET (Not in Education, Employment or Training) ossia ai giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non sono né occupati, né inseriti in un percorso di istruzione o di formazione, fattore questo che contribuisce al ritardo dell’entrata degli stessi nel mercato del lavoro; alle carriere discontinue (si pensi ai contratti a tempo determinato che vengono rinnovati dopo una fase di disoccupazione); al part-time involontario (forma contrattuale accettata o subita per necessità o per assenza di altre possibilità) e che, in quanto tale, non è più uno strumento di conciliazione di vita e di lavoro, trasformandosi in strumento per ridurre il costo di quest’ultimo; ai pensionati “under 54”; ai “baby pensionati” (lavoratori che sono andati in pensione a una età compresa tra i 55 e i 59 anni); ai lavoratori che tra i 60 e 64 anni si ritirano con pensione di anzianità o anticipata.

Le statistiche esaminate ovviamente ricomprendono tutte le persone che sono forza lavoro (occupati e disoccupati) ed è evidente, allora, che se un italiano lavora 40 anni e un altro non ha mai lavorato ufficialmente (i lavoratori in nero, altra piaga del nostro Paese, evidentemente entrano in questa statistica come disoccupati), la media è di 20 anni di lavoro a testa. Un dato è comunque certo: se per tempo trascorso al lavoro siamo ultimi tra i grandi Paesi europei, significa, chiaramente, che rispetto a essi in Italia la quota di persone che non lavorano o che lavorano troppo poco è più alta.