Ius scholae: il tormentone politico dell’autunno in seno alla maggioranza di governo?

ROMA – La domanda in epigrafe, stando alle chiarissime, martellanti e per certi aspetti colorite avvisaglie politiche di questi ultimi giorni, fa propendere, in vista della imminente ripresa a pieno regime delle attività istituzionali, per una risposta affermativa. Mai come in questa estate meteorologica, che volge oramai al termine il prossimo 31 agosto, sono state così in voga, con riferimento alle procedure per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di minori stranieri, le locuzioni latine, pseudogiuridiche, “ius scholae” o “ius culturae”, “ius sanguinis” e “ius soli”, che tanta presa fanno sulla politica e sui mezzi di informazione, forse per la loro raffinatezza e aulicità o forse anche perché il ricorso, in generale, a forestierismi fa tendenza quando ci si riferisce a temi controversi e divisivi.

Com’è noto, la vigente normativa statale in tema di cittadinanza (legge 91/1992) si basa sul principio dello ius sanguinis (“diritto di sangue”) ossia della cittadinanza acquisita per discendenza o filiazione e stabilisce (art. 1) che è cittadino italiano chi nasce da padre e/o madre che siano già cittadini italiani. La stessa normativa prevede anche una forma di ius soli (“diritto di suolo”) vale a dire di cittadinanza che, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori, si acquisisce sul presupposto di essere nato nel territorio italiano e quindi legata al luogo di nascita, ma limitatamente ai casi di figlio di genitori ignoti o apolidi (ossia senza Stato) o di figlio che non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.

Principio diverso è invece quello dello ius scholae (“diritto di scuola” o anche “ius culturae”), in applicazione del quale la cittadinanza, anche in questo caso a prescindere dalla nazionalità dei genitori, si acquisisce con la frequentazione di uno o più cicli di scuola, sul presupposto di essere nati o giunti, entro una certa età, in un dato Stato. Come si diceva, quello del riconoscimento della cittadinanza ai minori stranieri è un argomento che crea notevoli divisioni e contrapposizioni, su cui difficilmente si potrà mai raggiungere un’unità di punti di vista e intenti. Va però rilevato chiaramente che tale tema ruota tutto intorno a un concetto chiave, che è quello di “italianità”, termine questo che, per dirla con le parole del vocabolario on line Treccani, significa letteralmente «L’essere conforme a ciò che si considera peculiarmente italiano o proprio degli Italiani nella lingua, nell’indole, nel costume, nella cultura, nella civiltà (…)» o, più comunemente, «l’essere e il sentirsi italiano; appartenenza alla civiltà, alla storia, alla cultura e alla lingua italiana, e soprattutto la coscienza di questa appartenenza (…)».

A chi scrive risulta evidente, e ci mancherebbe, che la parola “italianità” non può dipendere dal colore della pelle, ma la domanda, a proposito dello ius scholae, allora è: può un minore straniero che abbia frequentato per soli 5 anni uno o più cicli di studio, anche cumulativamente (ossia la sola scuola primaria e/o la sola scuola secondaria di primo e/o di secondo grado), acquisire quelle connotazioni distintive? Può tale minore essere e sentirsi italiano, può avere acquisito tale coscienza di appartenenza, può dirsi radicato nel tessuto del Paese, può “vivere e pensare” italiano? A parere di chi scrive no. Occorrerebbe, infatti, un percorso di studi e di formazione più ampio, tale da consentire una effettiva conoscenza della lingua italiana, della cultura, della storia e delle istituzioni del nostro Paese, come forse potrebbe essere nel caso del completamento, da parte del minore straniero, dei dieci anni dell’obbligo scolastico; senza contare che, in tal senso, anche il fattore età ha la sua rilevanza ai fini della ricordata acquisizione, perché una cosa è essere nati in Italia o esservi arrivati nei primissimi anni di vita, altra è l’esservi giunto, ancorché minorenne, dopo una certa età.

La legge che attualmente disciplina la materia, risalente a oltre 30 anni fa, indubbiamente certifica l’“italianità” sotto i ricordati aspetti, ma si sa ogni legge è figlia del suo tempo e restare insensibili ai cambiamenti della società – che trovano, nella fattispecie, forse il momento di massima rassegna e narrazione quando atleti di colore che indossano la maglia azzurra vincono una competizione sportiva importante – sarebbe un errore da parte dei decisori politici. È giunto, probabilmente, il momento di abbracciare il cambiamento perché da molte parti della società arrivano richieste in tale direzione, fosse anche solo per impedire che persone nate e cresciute in Italia continuino a vivere in un limbo discriminante. Ma a tutto c’è un limite, ovviamente, e certe tendenze centrifughe, figlie di un approccio fortemente ideologico all’argomento, caratterizzato da orientamenti ideali e culturali e di politica sociale, si reputa che non possano in alcun modo essere condivise.

Cosa ben diversa, invece, relativamente alle dinamiche interne alla maggioranza di governo, è se lo ius scholae rappresenti o meno una priorità e se il programma iniziale, non prevedendolo, possa essere arricchito in corso d’opera dallo stesso. Si ritiene, al riguardo, che un tema come questo necessitava, per la sua indubbia rilevanza e spigolosità, di essere valutato al momento della stesura e della condivisione di quel programma: introdurlo in questa fase, come da propositi annunciati da uno dei partiti della maggioranza, è una operazione destinata a diventare un vero e proprio tormentone politico dell’autunno e ad alto rischio per la maggioranza stessa.