Professione? Influencer!

ROMA – La domanda e la risposta in intestazione, apparentemente banali, rispecchiano a ben vedere il profondo cambiamento che è in atto nei costumi e negli usi del nostro Paese, cambiamento strettamente collegato, secondo un nesso di causalità, ai social network e alle generazioni identificate dall’avvento del mondo digitale ossia a temi già trattati in altri articoli.

Fino all’attuale epoca della digitalizzazione delle relazioni e quindi dei social network, infatti, la risposta alla domanda in parola sarebbe stata: operario, contadino, impiegato, maestro, poliziotto, militare, professore, avvocato, medico e così via, vale a dire le professioni e i mestieri più diffusi.

Ma chi è l’influencer? Si può parlare di una nuova professione? Perché gli utenti del web e soprattutto dei social seguono così tanto gli influencer? A quali riflessioni, positive e/o negative, conduce questa figura?

Rispondere a tali domande richiederebbe spazi molto più ampi di quelli consentiti a questo articolo, con la conseguenza che occorre inevitabilmente fare di compendio necessità.

Con il termine “influencer”, secondo una canonica definizione da vocabolario, si intende un personaggio più o meno noto – non di rado “nato” e diventato tale attraverso la partecipazione a un reality show – nei social network e, in generale, seguìto dai media, che è in grado di influire sui (influenzare i) comportamenti e sulle (le) scelte di un determinato pubblico e, in particolare, le decisioni di quest’ultimo circa l’acquisto di beni e servizi che l’influencer reclamizza sulle piattaforme social stesse.

Non vi è dubbio che essere influencer richieda lo svolgimento di un’attività lavorativa a tutti gli effetti, continuativa nel tempo, che necessiti di capacità comunicative, forse anche di competenze in materia di marketing e scrittura, di avere un occhio per la fotografia e le tecniche di ripresa e registrazione di immagini e suoni, ai fini della realizzazione di filmati audiovisivi. Ciò nonostante, parlare di una professione, stando all’accezione più comune e propria del termine, appare obiettivamente fuori luogo tenuto conto che per tale figura non sono richieste conoscenze, competenze specifiche, preparazione e pratica specialistica, identità e statuti propri, che talvolta presuppongono anche il conseguimento di un determinato titolo di studio e magari di un’abilitazione professionale nonché l’iscrizione a un ordine o albo. E poi, diciamolo chiaramente, spesso la notorietà e la popolarità su cui l’influencer, in termini di followers – ossia di utenti che visualizzano i suoi contenuti per essere sempre aggiornati su tutti i post pubblicati, anche attraverso sezioni dedicate – e views, basa il proprio successo e i propri guadagni (variabili mediamente da 50 a 75mila euro a post in rapporto a come l’influencer viene classificato proporzionalmente al numero di followers ossia in nano, micro, mid-tier, macro, mega e celebrity, ma anche in base alla nicchia di cui si occupa, quali bellezza, moda, fitness, viaggi, cibo, sport, ecc.) dipendono da fattori non ascrivibili alla professionalità propriamente intesa. Si tratta di fattori quali la bellezza, la sensualità, l’attrattiva sessuale, l’immagine di un corpo idealizzato, a volte probabilmente anche “costruito” digitalmente, l’interpretazione di uno stile di vita o di comportamento, la diffusione di un gusto ovvero l’assunzione di certe posizioni su determinati temi, che hanno la prerogativa di fare tendenza.

Tutti elementi, quelli appena indicati – per arrivare alla terza delle riportate domande – che almeno in parte si ritiene spieghino anche perché il consumatore oggi, più che sentirsi dire da un’azienda quanto sia di qualità e conveniente un prodotto o servizio che vende, preferisca invece seguire i consigli per gli acquisti della propria icona, della persona che interpreti gli standard corporei, gli stili, i gusti e le posizioni prima ricordati, in quanto coincidano con quelli del consumatore stesso o a cui questi si ispiri. Ed è per questo che marchi commerciali, brand e aziende ricorrono, pagandoli, sempre di più agli influencer per promuovere le proprie vendite, con l’effetto di affermare una nuova forma di marketing, quello social, “influenzale”, che via via sta sradicando quello tradizionale. Ed è sempre per questo che la figura di influencer, pur non risultando una professione regolamentata, è sempre più richiesta per la capacità di veicolare messaggi al proprio pubblico, che la riconosce come “leader di opinione”, credibile e affidabile.

Alla quarta e ultima domanda è, al tempo stesso, facile e difficile rispondere, semplicemente perché la risposta è chiaramente soggettiva, con la conseguenza allora che rifugiarsi dietro altrui opinioni, come quelle di seguito riportate, sia forse la cosa migliore.

La stragrande maggioranza degli influencer viene dal nulla – afferma Giovanni (nome di fantasia) E. – sono dei giovani in cerca di fama e notorietà che si rivolgono alla loro generazione, che aspirano a fare di questo ruolo un vero e proprio lavoro, con guadagni importanti, senza che a monte vi siano un’adeguata preparazione e impegno e sacrificio connessi. Se penso alle fatiche e alle rinunce fatte per anni dai miei figli per conseguire una laurea in un’università statale e alle successive difficoltà incontrate per trovare, a quasi trent’anni, il posto di lavoro o esercitare la professione corrispondente al titolo di studio con, in quest’ultimo caso, anche la necessità di una abilitazione e specializzazione, mi viene da dire che non ci possa essere nulla di più frustrante, per persone che si trovino in situazioni analoghe, di assistere a un influencer che, “senza né arte, né parte”, arrivi a guadagnare anche molto di più, già da un’età inferiore. Tutto questo credo sia diseducativo dal punto di vista sociale e culturale e al tempo stesso indicativo di una società sempre più vocata al conformismo, a omologarsi a opinioni, usi e comportamenti anche sotto il profilo dei modelli che gli influencer propinano.”

I modelli proposti sui social dagli influencer – afferma Chiara (nome di fantasia) B. – sono sempre improntati al guadagno, diretti a espandere la loro fetta di mercato, fatta di followers e views. Anche se molti di loro appartengono alla mia generazione, non sempre li prendo a riferimento. Ci sono delle cose, di loro, che mi irritano, in particolare quando utilizzano le proprie storie sentimentali per farsi pubblicità, per incuriosire e attrarre possibili nuovi “seguaci”: tutto questo credo dia la misura di quanto tengano, gettandoli in pasto ai followers, ai propri stati d’animo, alle proprie emozioni più intime. O ancora quando coppie molto giovani, nate sui social avendo molto seguito e guadagnando tanto, dopo pochi mesi di relazione si uniscono frettolosamente in coppia senza prima aver valutato adeguatamente altri fattori su cui dovrebbe invece basarsi una convivenza, salvo poi prematuramente “scoppiare” al cessare della “chimica virtuale”.