Incidenti cardiovascolari nei calciatori: contraddizioni del sistema calcistico?
ROMA – Il caso del centrocampista della Fiorentina Edoardo Bove, accasciatosi a seguito di arresto cardiaco domenica 1° dicembre durante la gara con l’Inter, ha riportato alla mente i purtroppo numerosi e analoghi episodi verificatisi sui campi di calcio.
Nel caso di Bove, fortunatamente, il tempestivo e provvidenziale massaggio cardiaco seguito, immediatamente dopo, dalla defibrillazione e dal successivo pronto ricovero del giocatore in una struttura ospedaliera, hanno fatto sì che le fasi di allarme, di risposta extraospedaliera e di risposta ospedaliera del sistema di emergenza sanitaria abbiano funzionato alla perfezione, grazie anche alle circostanze specifiche e fortuite, strettamente legate allo svolgimento di una partita del campionato di calcio di Serie A.
Le conseguenze? Che non solo è stata salvata la vita al calciatore, ma si è anche scongiurato il rischio, elevatissimo in episodi del genere, di danni acuti e irreversibili a carico del sistema nervoso centrale e del sistema cardiorespiratorio.
Nei casi di arresto cardiocircolatorio, infatti, anche solo il pronto massaggio cardiaco consente, come si dice in gergo medico, di “fermare il tempo”, mantenendo una certa pressione di perfusione cerebrale (PPC) e quindi una vascolarizzazione [spinta di sangue nei vasi – n.d.r.] all’interno dell’encefalo, che aumenta le possibilità di successo degli ulteriori interventi, come l’impiego del defibrillatore.
Nel caso di Bove, l’arresto cardiaco sembrerebbe essere stato provocato da un’aritmia ventricolare maligna, che porta il cuore a fermarsi e alla momentanea assenza di polso. Le cause possono essere diverse, ma per atleti che fanno attività agonistica e vengono sottoposti a severi controlli in fase di valutazione medica ai fini del riconoscimento dell’idoneità sportiva, spesso certi episodi, affermano gli esperti, sono la conseguenza di patologie più subdole, senza sintomi palesi, che non emergono o potrebbero non essere sospettate con i controlli di routine, come nel caso di anomalie congenite delle coronarie o di patologie genetiche o infiammatorie.
Si diceva dei numerosi episodi capitati sui campi di calcio, al punto che si fa fatica anche solo a passarli in rapida rassegna e che, ogni volta, riportano alla luce il tema dell’importanza dello screening medico sportivo, soprattutto nella prospettiva di prevenire le “morti improvvise” nello sport.
Come dimenticare, infatti, le scioccanti morti in campo da arresto cardiaco di Renato Curi, giocatore del Perugia, e Piermario Morosini, giocatore del Livorno, rispettivamente nel 1977 e nel 2012 o ancora l’arresto cardiaco, nel 1989, del giocatore della Roma Lionello Manfredonia, salvato dal massaggio cardiaco del medico sociale, dalla defibrillazione praticata in ambulanza e dall’immediato trasporto in ospedale, ma costretto poi ad abbandonare il calcio per mancato riconoscimento dell’idoneità sportiva. Per parlare di giocatori stranieri, non meno tragici l’arresto cardiaco, durante gli Europei di calcio del 2021, del giocatore danese Christian Eriksen – tornato a giocare in Inghilterra grazie a un defibrillatore sottocutaneo impiantato chirurgicamente, capace di rilevare il battito cardiaco irregolare e, al verificarsi di ciò, di riportare il ritmo alla normalità producendo uno shock – o ancora quello del giocatore del Bolton Fabrice Muamba nel 2012 – ripresosi completamente dalle conseguenze dell’arresto cardiaco, ma privato della possibilità di tornare sui campi di calcio – del giocatore dell’Ajax Abdelhak Nouri nel 2017 – che ha riportato danni cerebrali gravi e permanenti – e di Tom Lockyer, giocatore del Luton, che nel 2022 è collassato sul campo di calcio privo di sensi e che già giocava con un defibrillatore, decisivo anche in quell’occasione a evitargli una triste fine.
Insomma, tanti episodi, che fanno emergere, oltre alla drammaticità delle singole storie, anche una serie di altri aspetti almeno apparentemente contraddittori o che comunque si fa fatica a comprendere, tenuto conto che si riferiscono alla salute dei calciatori e all’idoneità sportiva necessaria per poter giocare a calcio a livello agonistico.
Alcuni esempi? In Inghilterra si può giocare con un defibrillatore sottocutaneo, mentre in Italia no; in Italia la certificazione per l’attività sportiva agonistica richiede, per verificare l’efficienza del cuore, un elettrocardiogramma a riposo e uno sotto sforzo, invece, all’estero, di solito ci si ferma all’elettrocardiogramma a riposo. Per cui si verifica che Eriksen, che giocava nell’Inter al momento del suo incidente, non può più giocare in Italia, ma gioca in Inghilterra e stessa sorte potrebbe capitare a Bove, qualora gli venisse applicato un defibrillatore. Ma si verifica anche, ad esempio, che il giocatore austriaco del Lens Kevin Danso, la scorsa estate non superava le visite mediche cui lo sottoponeva la Roma in sede di acquisto, mentre in Francia e con la sua nazionale giocava regolarmente, e oggi, dopo una serie di ulteriori accertamenti che sembravano essere dapprima il preludio a un intervento chirurgico al cuore e successivamente escludevano anomalie che potrebbero portare o supportare lo sviluppo di pericolose aritmie, veniva dichiarato idoneo a giocare a calcio agonistico e, di conseguenza, riprendeva la sua attività nel Lens.
Tutti elementi quelli indicati che, come si diceva, si fa obiettivamente fatica a comprendere in termini di ragionamento logico e di metodo e che portano a chiedersi come mai le massime autorità calcistiche, a livello europeo e mondiale, non impongano un sistema univoco di regole, da applicarsi in ogni paese calcistico, tenuto conto che il diritto alla salute è un bene giuridico primario e universale per tutti, anche per i calciatori, che non può, evidentemente, espandersi o contrarsi a seconda del paese in cui si gioca a calcio.