Declino demografico: conseguenze e cause

ROMA – Nei giorni scorsi avevamo già parlato dell’inverno demografico del nostro Paese, del progressivo invecchiamento della sua popolazione e, più specificatamente, di un numero medio di figli per donna in età convenzionalmente feconda (15-49 anni) sceso addirittura a 1,2 figli per donna, valore di molto al di sotto di quel 2,1 figli per donna necessario ad assicurare la sostanziale invarianza della struttura demografica della popolazione stessa e dunque il ricambio generazionale, l’equilibrio tra le generazioni, in modo che ogni nuova generazione conservi una consistenza numerica corrispondente a quelle precedenti. A evidenziare la gravità del descritto declino demografico, anche la previsione secondo cui in Italia nel giro di 10/15 anni il numero dei pensionati sarà pari a quello dei lavoratori.

Ma quali sono/saranno le conseguenze, per il nostro Paese, di questa dinamica di progressivo e apparentemente inarrestabile regresso demografico, di questo crescente sbilanciamento tra giovani e anziani?

La risposta è facilmente intuibile.

Il cambiamento della struttura demografica per età di una popolazione e, in particolare, del rapporto tra lavoratori e pensionati che, come si diceva, tende ad arrivare a 1 a 1, il calo delle nascite e quindi della popolazione in età lavorativa ossia dei futuri lavoratori, in una parola il “debito demografico” via via crescente rispetto alle generazioni che verranno, finisce/finirà, inevitabilmente, per generare delle gravissime ripercussioni sulla sostenibilità del sistema economico, previdenziale e di welfare pubblico.

Alcune domande rendono, verosimilmente, meglio l’idea: chi pagherà le pensioni future? Come assicurare le spese di servizi sanitari e assistenziali specifici necessari per un crescente numero di anziani, in particolare di anziani sempre più anziani che vivono soli? Come garantire alle famiglie con un maggior numero di figli, che vedono per effetto di ciò il loro tasso di povertà aumentare proporzionalmente, un tenore di vita dignitoso? Come far fronte all’impatto negativo che la riduzione di forza lavoro (ossia di un fattore di produzione), che nemmeno più l’immigrazione riesce a compensare, determina sulla crescita economica e, consequenzialmente, sul PIL (se manca un fattore produttivo la produzione cala, soprattutto di quelle attività economiche in cui le tecnologie, quand’anche alla portata della singola impresa in termini di costo, non possono totalmente sostituire la manodopera) e sulla sostenibilità del debito pubblico? Dove trovare le consistenti risorse pubbliche, data la loro scarsità strutturale, richieste per invertire la prolungata curva negativa delle nascite, che determina un progressivo sbilanciamento a sfavore delle generazioni giovani e adulte, che rappresentano la linfa vitale del Paese? Come far passare, a livello sociale e culturale, il messaggio secondo cui la nascita di un figlio non può costituire solo un onere a carico dei genitori, ma è un patrimonio/valore di un’intera comunità, che rende più solido il futuro della stessa?

Stando a dei sondaggi, a fronte del ricordato dato di 1,2 figli per donna in età riproduttiva, il numero di figli desiderato dalle coppie è pari a 2.

Ma quali sono allora i principali ostacoli all’allineamento tra ciò che si desidera e ciò che poi effettivamente si realizza?

Il primo ostacolo è indubbiamente relativo al “ritardo”, evidenziato anche nel menzionato articolo, con cui arriva il primo figlio, fatto questo sostanzialmente riconducibile alle difficoltà di accesso al mercato del lavoro da parte dei giovani, lavoro che è un fattore essenziale per conquistare l’autonomia dalla famiglia di origine (in tal senso, indicativi l’elevatissimo numero di NEET – ossia i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non sono né occupati, né inseriti in un percorso di istruzione o di formazione – e di lavoratori precari); il secondo è da ricercare nelle difficoltà di conciliare la vita lavorativa di entrambi i membri della coppia con la cura dei figli; il terzo è legato al rischio di povertà che scaturisce dalla scelta di avere un figlio, sintetizzato nella frase: “un figlio costa e ti espone a una vulnerabilità economica”, anche per la maggiore permanenza nel tempo nella famiglia di origine.

Connessi alle barriere alla procreazione prima indicate, anche l’aumento continuato del costo della vita, gli inadeguati livelli retributivi rispetto allo stesso, l’inadeguatezza del sistema dei servizi per l’infanzia e delle misure a sostegno della genitorialità (come nel caso del sostegno finanziario alle famiglie con figli sotto forma di trasferimenti monetari e/o agevolazioni fiscali, di congedi di maternità, paternità e parentali, del sostegno economico alla procreazione medicalmente assistita), l’incidenza del fattore tempo, in termini di ritardo nel concepimento di un figlio, sulla fertilità femminile (che cala progressivamente dopo i 30 anni), la disoccupazione di uno o entrambi i componenti della coppia, l’assenza o l’inefficacia delle politiche abitative, l’incertezza rispetto al futuro, ma anche la realizzazione dei propri obiettivi nella vita (non necessariamente solo in ambito lavorativo), che può portare a un rinvio della genitorialità o a una rinuncia alla stessa.

Insomma, tutti fattori che rendono complicata una solida inversione di tendenza in una struttura demografica già fortemente compromessa e che, per ciò stesso, richiederebbero interventi sistemici, integrati e soprattutto duraturi.